cristalloStoricamente psicologia e psicoterapia hanno concentrato la loro attenzione sul singolo individuo ed hanno cercato di comprenderlo isolandolo, il più delle volte, dal suo contesto di vita, osservandolo quasi come si osserva un cristallo, in piena luce e con la lente di ingrandimento. Questo ha fatto sì che molti comportamenti, pensieri ed atteggiamenti venissero attribuiti a caratteristiche, a tratti, a traumi, a meccanismi tutti riconducibili alla singola persona. “[…] un fenomeno resta inspiegabile finchè il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica. Se l’osservatore non si rende conto del viluppo di relazioni tra un evento e la matrice in cui esso si verifica, tra un organismo e il suo ambiente, o è posto di fronte a qualcosa di ‘misterioso’ oppure è indotto ad attribuire al suo oggetto di studio certe proprietà che l’oggetto può non avere.” (Waztlawick, Beavin e Jackson, 1971, p. 14)

Ma negli anni del secondo dopoguerra alcuni clinici americani, che lavoravano principalmente con persone diagnosticate come schizofreniche e con le loro famiglie nel tentativo di comprenderle ed aiutarle, si sono resi conto che era possibile adottare anche un’altra prospettiva, una prospettiva che mettesse al centro dell’attenzione le relazioni e considerasse le famiglie come sistemi organizzati grazie a regole relazionali: una prospettiva relazionale appunto. Questi clinici, che avevano formazioni diverse e competenze diverse, si organizzarono in un gruppo di lavoro al Mental Research Institute di Palo Alto, in California, e furono i fondatori dell’approccio sistemico alla psicoterapia.

“Se si studia una persona dal comportamento disturbato (psicopatologia) isolandola, allora l’indagine deve occuparsi della natura di tale condizione e – in senso esteso – della natura della mente umana. Se invece si estende l’indagine fino ad includere gli effetti che tale comportamento ha sugli altri, le reazioni degli altri a questo comportamento, e il contesto in cui tutto ciò accade, il centro dell’interesse si sposta dalla monade isolata artificialmente alla relazione tra le parti di un sistema più vasto.” (Waztlawick, Beavin e Jackson, 1971, p. 15)

Come è comprensibile, la loro fu una sorta di rivoluzione copernicana che trasformò il modo di guardare alla persona ed alle sue difficoltà e di fare terapia. Fu una rivoluzione che portò a concentrare tutta l’attenzione sui sistemi familiari e talvolta a colpevolizzare i genitori, considerati spesso i “colpevoli” del comportamento disturbato mostrato dai figli, ed ad enfatizzare le dinamiche di potere all’interno dei nuclei anche a scapito del valore della dimensione affettiva fra le persone.

scimpaCredo però che adottare una prospettiva che consideri quel che accade nel sistema in cui vivono le persone sia assolutamente fondamentale, anche nella terapia individuale: “non deve più sorprenderci neppure che la consapevolezza che l’uomo ha di se stesso è sostanzialmente una consapevolezza delle funzioni, delle relazioni in cui si trova implicato” (Waztlawick, Beavin e Jackson, 1971, p. 21). Le persone sono infatti spesso disposte a fare “di tutto” per mantenere una relazione per loro importante o per mantenere una certa idea di sè, che deriva proprio dal ruolo che esse giocano all’interno delle loro relazioni fondamentali. Questo fa sì che quando perdono una persona, quando la relazione con un Altro fondamentale si rompe o è in procinto di rompersi oppure è fonte di continue sconferme, esse soffrono e provano a fare di tutto per ripristinare la relazione stessa o la loro idea di sè, magari attraverso nuove e diverse relazioni. Ed accade che questi tentativi di soluzione possano apparire o diventare “sintomi” a chi si limita a considerare la persona come un cristallo, sotto una luce forte e con una buona lente di ingrandimento.

 

I brani riportati nel testo sono tratti dal celeberrimo testi di Watzlawick, Beavin e Jackson, La pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.

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